Muoversi 2 2023
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COME È CAMBIATO IL MERCATO DELLO SHIPPING ENERGETICO

COME È CAMBIATO IL MERCATO DELLO SHIPPING ENERGETICO

di Marco Macciò

Marco Macciò

Esperto di shipping e questioni energetiche

In che misura la guerra in Ucraina ha modificato il commercio internazionale di gas naturale, di petrolio e di carbone? La risposta dipende da ciò che si guarda: la materia prima sulla quale si fa zoom, i suoi flussi, il suo prezzo o il nolo che si paga per far giungere quella merce a destino. Certamente, il pandemonio innescato da Putin non solo ha favorito un parziale ritorno al carbone, ma ne ha anche mandato ben all’insù il prezzo. Tanto è vero che nell’ottobre scorso per la prima volta le quotazioni di quanto estratto nell’Appalachia centrale hanno superato la soglia di 200 dollari/tonnellata. Invece, non sono cresciuti i noli pagati per far viaggiare via mare tale fossile. Eppure, l’Europa ha cercato di tamponare il taglio dato da Mosca alle sue forniture carbonifere attingendo in Sudafrica, in Australia e in Indonesia, facendo così crescere del 4% la lunghezza media delle tratte battute dallo steam coal e dal carbon coke. Come mai? La risposta è semplice: i noli trattati sullo spot market (vale a dire sul mercato ove si svolgono le negoziazioni inerenti un singolo viaggio) dipendono dal rapporto intercorrente tra la richiesta e l’offerta di scafi. E la bulkcarrier fleet (il naviglio utilizzato per il trasferimento del carbone, dei cereali, della bauxite, ecc.) al momento esprime un’offerta di stiva ben più abbondante della domanda. Tanto più abbondante che, nel caso di questo tonnellaggio durante il 2022, quanto finisce in tasca all’armatore dopo aver dedotto dal nolo la spesa per il combustibile e per l’utilizzo di porti e canali – il cosiddetto timecharter equivalent – ha registrato un trend discendente.
Che insegna il caso del carbone? Che ogni materia prima energetica è una realtà a sé. D’altronde, il gas naturale e il petrolio sono sì entrambi degli idrocarburi, ma – industrialmente parlando – sono beni alquanto diversi. Intanto, il petrolio viene imbarcato pressoché come estratto, mentre quella miscela di metano, etano, propano, etc., usualmente indicata come natural gas, va depurata e soprattutto intensamente raffreddata per farla divenire liquida e volumetricamente ridimensionata in misura gestibile. Diversamente, il liquefied natural gas (LNG) non potrebbe essere immagazzinato a costi accettabili e caricato in navi speciali – le cosiddette metaniere – per attuarne trasporti intercontinentali. Vi è, però, una seconda – e importante – differenza tra il natural gas e l’oro nero. Riguarda i loro contratti di compravendita. Infatti, quelli relativi al natural gas sono in prevalenza delle intese a lunga durata e poco flessibili sia in termini di prezzo che di volume. E tanta rigidità produce quantomeno due effetti. Innanzitutto, fa sì che ben poco natural gas finisca per essere negoziato nelle Borse mondiali. Così, quando Mosca ha preso a frenare le sue forniture all’Europa, i più grandi operatori e trader di settore si sono scatenati su queste Borse (in particolare su quella olandese) per cercare del natural gas alternativo a quello russo. In buona misura sono riusciti nell’intento, ma comprando anche a quotazioni pressoché stratosferiche. Tanto è vero che nel 2022, stando alle stime, é più che triplicato l’onere per le importazioni di LNG. La rigidità caratterizzante il business del gas naturale comporta, però, anche dell’altro: una quota rilevantissima del traffico marittimo di LNG si svolge tramite metaniere unicamente dedite a servire per lungo tempo una specifica tratta.

Quando Putin ha limato, o addirittura negato, l’export di natural gas ai suoi tradizionali clienti, quest’ultimi hanno dovuto rivolgersi a fornitori ubicati molto più lontano della Russia, ma tenendo conto che la richiesta addizionale di naviglio che stavano generando trovava un tetto nelle poche LNG carrier svincolate da impegni a lungo termine

Di conseguenza, sono pochi gli armatori che corrono l’alea dello spot market. Così, quando Putin ha limato, o addirittura negato, l’export di natural gas ai suoi tradizionali clienti, quest’ultimi hanno dovuto rivolgersi a fornitori ubicati molto più lontano della Russia, ma tenendo conto che la richiesta addizionale di naviglio che stavano generando trovava un tetto nelle poche LNG carrier svincolate da impegni a lungo termine. Quindi, il fabbisogno di metaniere non ha avuto un vero e proprio boom; rispetto all’anno precedente è salito solo del 50% il timecharter equivalent mediamente percepito dalle LNG carrier da 160.000 metri cubi. Ovvero, dalle metaniere costituenti il benchmark delle spedizioni di dimensione consistente svolte su rotte di lunghezza significativa. Le cose sono andate in tal modo anche nel caso dell’oro nero? No, per il barile, giacché il suo prezzo non ha certo toccato le vette raggiunte dal natural gas; molto meglio per le tanker, sebbene – da quando il nolo incide poco sul costo del barile a destino – le major e i trader trovino conveniente trattare sullo spot market la stragrande maggioranza del traffico internazionale via mare. Ad ogni modo, da quando si combatte in Ucraina di noli elevati hanno goduto tanto le petroliere trasportanti crude oil, quanto quelle movimentanti oil product.
È andata così per il combinarsi di quattro motivi. Il primo: il consumo petrolifero mondiale è pressoché tornato ai livelli pre-pandemia e c’è meno crude oil stoccato sulle navi. Pertanto, oggi si trasporta via mare un po’ più petrolio di quanto si facesse quando Putin attaccò l’Ucraina. Il secondo: la Russia ha finora riversato nel mercato mondiale grosso modo la stessa quantità d’olio minerale greggio che tradizionalmente esportava, ma si sono rarefatte le sue consegne all’Europa, la quale in parte ha dovuto rivoluzionare il suo import via mare, mentre è esploso l’export di Mosca verso Cina e India. Il che vuol dire che le vendite russe, anziché comportare mediamente un viaggio di 10 giorni (se non meno), oggi sono divenute spedizioni includenti viaggi che durano anche dai 30 ai 50 giorni. In più, un allungamento delle percorrenze vi è stato nell’ambito degli oil product, poiché è ben vero che ultimamente i russi hanno dovuto ridimensionare le loro esportazioni globali di benzina, di gasolio e via dicendo, ma è anche vero che Rosneft e le altre compagnie che hanno in mano l’export petrolifero russo hanno spedito ben di più oil product di quanto facessero tradizionalmente in territori quali il Medio Oriente, la Turchia, l’Asia e l’Africa. Così come è pure vero che le maggiori importazioni indiane e cinesi di greggio russo in buona misura si trasformano in oil product destinati a mercati piuttosto lontani dalle raffinerie che li hanno lavorati. Ed ecco il terzo motivo: il calo della produttività delle tanker. Dipende dal diffondersi del dark trade: l’interscambio fatto in barba alle sanzioni. Infatti, quest’ultimo – facendo il caso del crude oil russo disponibile in Mar Nero – si svolge in tal modo: una cisterna imbarca a Novorossiysk del greggio sul quale grava l’embargo e poi, anziché recarsi al porto di destino del carico, va a un meeting point al largo del Peloponneso oppure in Nordatlantico e lì trasborda il proprio greggio su una tanker di maggior capacità, la quale – solo dopo essere stata ulteriormente alimentata da una seconda (e magari anche una terza) petroliera – inizia il viaggio verso il terminal d’approdo finale. E siamo al quarto motivo: la crescita al rallentatore della flotta cisterniera.

In conclusione, gli armatori di cisterne si trovano nella posizione inversa di quel generale di Luigi XIV che giustificò una propria sconfitta dicendo d’essersi trovato sul campo di battaglia con pas des amis et trop des ennemis.

Perché quest’ultima non si dilata, ancorché i noli siano elevati? Un po’ perché le tanker sono molto care e nessuno sa se valga la pena d’investire in newbuilding, non conoscendo quanto a lungo possa durare l’attuale bonanza. Un po’ perché non si sa bene quale piega potranno prendere le cose. Un po’ perché gli shipbuilder si trovano nell’impossibilità di stimolare le ordinazioni calando il prezzo. Infatti, la fabbricazione delle tanker (come quello delle altre navi) oggi ha un costo pressoché incomprimibile, vuoi perché le quotazioni dell’acciaio sono alquanto elevate, vuoi perché va messo in conto che l’inflazione prima o poi manderà all’insù – e di parecchio – la spesa necessaria per il pagamento della manodopera. In conclusione, gli armatori di cisterne si trovano nella posizione inversa di quel generale di Luigi XIV che giustificò una propria sconfitta dicendo d’essersi trovato sul campo di battaglia con pas des amis et trop des ennemis. Così i possessori di tanker oggi finiscono per essere degli emuli di zio Paperone, giacché – come detto – di amici ne possiedono quattro e di nemici non ne hanno alcuno.